La distopia del linguaggio

“La neolingua non era concepita per ampliare le capacità speculative, ma per ridurle, e un simile scopo veniva indirettamente raggiunto riducendo al minimo le possibilità di scelta.”

(G. Orwell, 1984)

 

Viviamo in una società entropica: la comunità nazionale – sebbene il discorso possa estendersi al di là dei confini del nostro Paese – sembra si stia ostinatamente impegnando a raggiungere uno stato di progressivo sfaldamento, un po’ come accade per l’universo: esso è, difatti, proprio come noi, in continua espansione e dispersione. Lo si percepisce, al di là delle questioni sociopolitiche, dall’analisi della base su cui si fonda la nostra società, ovverosia dall’analisi del linguaggio. È fenomeno risaputo, riconoscibile e a dir poco lapalissiano, l’impoverimento lessicale cui va devotamente incontro il nostro italiano, costellato da una serie di manomissioni che tendono a uniformare l’espressività e ad assottigliare la varietà linguistica della popolazione.

Penso, ad esempio, a termini come l’ormai sdoganato ‘petaloso’, al ‘piuttosto che’ utilizzato con valore disgiuntivo e, ultimo dei fenomeni popolari nostrani, alla diffusione sempre più marcata della costruzione transitiva per i verbi intransitivi (mi riferisco, ovviamente, a fenomeni linguistici già dibattuti dall’Accademia della Crusca per i casi di “siedi il bambino”, “scendilo”, “esci il cane” ecc.).

Per quanto riguarda quest’ultima specifica casistica, in realtà, ci si trova dinanzi a un fenomeno di vecchia data che però, fino a poco tempo fa, aveva la peculiarità di essere circoscritto a forme colloquiali nate e diffuse soprattutto nel Sud-Italia (sebbene, come attesti Francesco Sabatini, costruzioni simili si riscontrino già da anni anche al Nord – basti pensare all’uso documentato del fenomeno da parte di Beppe Fenoglio il quale, come testimoniato dal Presidente Onorario, fa uso letterario della formula “esci il bambino”). Oggi, invece – complici i social e il tumulto mediatico scatenatosi intorno alla questione – la succitata costruzione popolare sembra diffondersi, al di là della sua accezione ironica, a macchia d’olio su tutto il territorio.

La febbre da costrutto errato su scala nazionale sembra prendere avvio nel 2015, proprio in ambito virtuale, grazie al caso del lancio dell’hashtag primordiale e sicuramente poco elegante con cui s’invitava la modella Lucia Javorcekova a mostrare le sue grazie. Da allora la variante scorretta è stata sdoganata, diffusa da noti programmi televisivi (che al caso hanno dedicato interi servizi) e adottata con sempre maggiore frequenza allargando via via il repertorio di contaminazioni ed estendendosi al di là delle primigenie limitazioni regionali.

È una questione di praticità, si dice, di economia verbale e di adattamento a situazioni quotidiane di particolare urgenza. E sebbene l’uso dilagante della formulazione incriminata rimanga circoscritto, almeno per il momento, all’ambito dell’informalità (nazionale, si badi, non più regionale!), non si può fare a meno di rivolgere lo sguardo e il pensiero a quegli illustri veggenti letterari che hanno immaginato anzitempo una meta distopica per l’uso della lingua: sto parlando, ovviamente, di Jonathan Swift e George Orwell.

Il primo, nel celeberrimo I viaggi di Gulliver, ci parla dei sapienti dell’Accademia di Lagado che dissertano circa una possibile abolizione del linguaggio, sostituendo a esso uno schematico repertorio di oggetti da mostrare al bisogno, al solo scopo di prevenire il deterioramento dei polmoni umani (ed è curioso notare, a tal proposito, come siano le donne a opporsi più di altri alla paventata abolizione della libertà espressiva e di pensiero: le stesse donne che, soprattutto a partire dalla fine degli anni settanta del Novecento, si batteranno per la costruzione di un linguaggio nuovo, eterogeneo e libero dal dominio patriarcale… ma questa è un’altra storia).
Orwell invece, in 1984, illustra ampiamente lo scopo e la costituzione della lingua ufficiale di Oceania, la neolingua votata all’appiattimento semantico-lessicale per indurre la massa comunitaria a una minore predisposizione critica e limitarne la libertà di pensiero (in questo senso la neolingua si contrappone all’archelingua, dotata di maggiore densità e ricchezza di sfumature oltre che di vocaboli in senso stretto).

Ma il nesso fra le due cose, effettivamente, dov’è?
Ebbene: se nelle opere citate poc’anzi l’impoverimento linguistico muoveva dalle alte sfere, oggi pare che sia il popolo stesso – supportato comunque dalle classi dirigenti – a crogiolarsi nella diffusione di questa economia verbale, a favorire – ironicamente o meno, inconsciamente o meno  – questo appiattimento sterile, operando così contro sé stesso e contro la preziosità dello strumento democratico per eccellenza: il linguaggio quale veicolo di idee diversificate ed esprimibili in modo eterogeneo, con vitalità e poliedricità.

È la società stessa che, col suo impigrirsi, tende all’entropia, allo sfaldamento e all’appiattimento del tessuto linguistico nazionale, come accade nel momento in cui l’uso improprio di una data costruzione verbale diventa, per così dire, canonico. Ed è forse a questo proposito che lo stesso Presidente Onorario dell’Accademia della Crusca Francesco Sabatini ha concluso osservando che nel caso in cui uno studente usasse simili costrutti andrebbe, a norma, ripreso dal suo insegnante.

È lecito, dunque, ammettere il diffondersi di un formulario simile ma è altresì dovere civico e democratico fare in modo che questi non si erga a vessillo di una nuova, dominante, povertà comunicativa.

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