Calvino-Einaudi

Italo Calvino, lo scoiattolo della penna1, è assunto dalla casa editrice Einaudi nel 1950. Egli instaura rapporti professionali e relazioni amicali con personalità importanti: Cesare Pavese, Felice Balbo, Natalia Ginzburg, Franco Venturi, Massimo Mila, Elsa Morante… In circa mezzo secolo dedica gran parte del suo tempo ai libri degli altri attraverso una costante attività di lettore, traduttore, redattore e promotore culturale. Incoraggia la lingua italiana a farsi testimone di nuovi saperi, a essere sostenitrice di nuova cultura, ma anche protettrice di tradizioni lontane e millenarie da ricontestualizzare.

In quanto figura poliedrica di casa Einaudi, oggi, lo si può annoverare tra gli intellettuali più eclettici e influenti del panorama editoriale italiano. Un uomo dal multiforme ingegno che ha spazzato via l’inquietudine mefistofelica della Prima guerra mondiale, portando una ventata di freschezza tra gli scaffali polverosi e scricchiolanti delle librerie degli anni ‘50. Come? Grazie a un agire editoriale mirato e aperto al nuovo. Infatti, si tratta di un impegno sociale della letteratura, quello da lui promosso. Un po’ sulla falsa riga degli esistenzialisti francesi come Sartre e de Beauvoir o forse più vicino ai sentimenti di rivendicazione sociale dell’attivista Weil o più semplicemente alla maniera di un novecentesco Perrault italiano:

«I romanzi che ci piacerebbe di scrivere o di leggere sono romanzi d’azione, […] ciò che ci interessa sopra ogni altra cosa sono le prove che l’uomo attraversa e il modo in cui le supera. Lo stampo delle favole più remote: il bambino abbandonato nel bosco o il cavaliere che deve superare incontri con belve e incantesimi, resta lo schema insostituibile di tutte le storie umane, resta il disegno dei grandi romanzi esemplari»2.

Ebbene, è la letteratura fiabesca il punto di contatto più evidente tra Calvino e i suoi lettori: lo scrittore sanremese offre titoli come Il sentiero dei nidi di ragno, con il quale esordisce nel 1947, Il visconte dimezzato, Il barone rampante, Il cavaliere inesistente, Marcovaldo, Le cosmicomiche e molti altri piccoli grandi capolavori, tutti carichi di un certo wit letterario e che soddisfano i gusti dei più esigenti divoratori di libri. Ma è nel 1956 che si può cogliere il connubio intellettuale e progettuale tra Calvino e Giulio Einaudi, ritrovandosi a confondere la figura del primo con quella del secondo: dopo la traduzione e pubblicazione di Antiche fiabe russe, H. Christian Andersen fiabe Fiabe africane, i due decidono di dare alle stampe anche Fiabe Italiane, una raccolta di storie della nostra tradizione popolare che ha lo scopo di accostare a una saggezza più esotica quella italiana, dando di fatto all’Italia un favolista di riferimento:

« Le fiabe contengono una spiegazione generale del mondo, in cui c’è posto per tutto il male e tutto il bene. E ci si trova sempre la via per uscir fuori dai più terribili incantesimi»3.

Il letterato ligure e l’imprenditore editoriale torinese avevano dunque compreso la bellezza della leggerezza di forme e contenuti, una leggerezza che si fa portatrice di messaggi più complessi, che sa far meravigliare e che è rintracciabile, sotto forma di racconto per bambini, nella tradizione folkloristica di ogni paese. Einaudi e Calvino sono i mecenati di una rinascita intellettuale e culturale di un dato periodo storico. Hanno creduto nella magia di ranocchie incantate, pesciolini rossi misteriosi, re e regine dalle richieste improbabili, catturando l’attenzione di un vasto pubblico, prendendo spunti stilistici e trasformando i fantasmi del passato in sogni ancora da realizzare. Che sia ampiamente promossa la pubblicazione e diffusione di racconti fiabeschi, di prima mano o provenienti dal genio estero, poiché sono considerevoli gli insegnamenti pedagogici in essi contenuti e da cui si può attingere il sapere umano, quello meno ostentato, ma più denso di significati.

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