Si parla tanto – e spesso senza via di scampo – della più o meno presunta pervasività dell’editoria elettronica. Si parla di libri, di fantasticherie, di utopie e di luoghi non-luoghi; di immagini immortali che abitano la cellulosa così come le cervella, di come la carta muore e di come la carta mente ignorando l’inesorabile, discreta, silenziosa avanzata dello schermo digitale.
Si parla di industria e di virtualizzazione della conoscenza e se ne parla così tanto che la questione perde i suoi contorni netti: qual è l’arricchimento che si propone? Ci si preoccupa più del mercato o delle strategie che possano invogliare il lettore a nutrire il suo spirito?
Si fa tanta retorica, credo, e ci si crogiola in un sogno stantio che crede alle sue stesse bugie. Si dice spesso che in Italia l’editoria digitale è destinata a un successo effimero, soltanto vagamente probabile, perché i numeri stanno ancora dalla parte del cartaceo, del libro-oggetto, del corpo-libro. Eppure, a ben vedere, non è così: nel 2018 l’incremento di ebook scaricati è del 29% e si crede, a ragione, che sia proprio l’editoria digitale ad aver contribuito alla crescita numerica dei lettori nel nostro Paese. È un’avanzata lenta ma costante, che si oppone caparbiamente ai metodi e alle strategie delle grandi, tradizionali case editrici.
A cosa si appellano queste, in effetti, quando criticano l’editoria più modesta e già nata in digitale? Qual è l’arma e qual è il simbolo al centro della diatriba?
Si parla, a mio avviso e come già accennato, di corpi: del tradizionale corpo-libro e del non-corpo uniformato della letteratura virtuale. Di utopie ed eterotopie secondo un’accezione foucaoultiana, laddove il libro è:
“Il paese delle fate, il paese dei folletti, dei geni, dei maghi – ebbene – è il paese in cui i corpi si muovono alla velocità della luce, le ferite guariscono in un lampo con un balsamo meraviglioso ed è possibile cadere da una montagna e rialzarsi vivi, il paese in cui si è visibili quando si vuole, invisibili quando lo si desidera” e il tablet, l’e-book, au contraire, sono un’utopia di segno invertito, “fatta per cancellare i corpi. Questa utopia è il paese dei morti, […] É l’utopia del corpo negato e trasfigurato”, laddove il corpo diventa “solido come una cosa, eterno come un dio”.
In una parola: eterotopia del libro, suo specchio dal segno inverso, esistente e negato al tempo stesso. E se il confronto è tra corpi e non-corpi, dunque, a torto i grandi nomi dell’editoria tradizionale, i lettori romantici e affezionati ai loro medium cartacei parlano della volatilità, della mancata qualità e della natura effimera del testo digitale: a ben guardare, è lo stesso corpo-libro a farsi via via antico, fragile, volatile e deperibile.
A torto si appellano alla maggiore, intrinseca – innegabile – bellezza del libro-oggetto poiché, a voler aprire gli occhi, non è la superficie né la copertina – che banalità estrema! – a fregiare un’opera del suo valore; non è su quella tangibilità passeggera, così simile a noi, che si specchia la nostra storia, non è su quel peso specifico né su quel particolare profumo che si svela e si forgia la nostra identità.
Lo aveva già intuito Salinger con la tanto desiderata copertina bianca del giovane Holden e lo ripete, una volta ancora, Foucault nella sua Archeologia del sapere:
“Il fatto è che i confini di un libro non sono mai netti né rigorosamente delimitati: al di là del titolo, delle prime righe e del punto finale, al di là della sua configurazione interna e della forma che lo rende autonomo, esso si trova preso in un sistema di rimandi ad altri libri, ad altri testi, ad altre frasi, il nodo di un reticolo. […] È inutile che il libro si dia come un oggetto che si ha sotto mano; è inutile che si rannicchi in quel piccolo parallelepipedo che lo racchiude: la sua unità” – il suo valore, diremmo noi – “è relativa e variabile. […] incomincia ad indicarsi e a costruirsi soltanto a partire da un campo completo del discorso”.
Se dunque l’unità, la forza, l’immortalità e l’identità di un libro si forgiano a partire da un discorso, da un pensiero, da una possibilità e da una prospettiva relazionale, che senso ha schierarsi con l’Armata della Luce anziché con quella dell’Ombra, con l’utopia o l’eterotopia del supporto fisico e negare l’avanzata di un mercato che, anzi, sta avvicinando alla letteratura e alla conoscenza nuove schiere di curiosi e lettori, figli di un’epoca ormai abituata alla convivenza – più o meno pacifica – di analogico e digitale?
La verità è che l’editoria nazionale ha forse bisogno di aprirsi alla digitalizzazione con maggior fiducia e minore svogliatezza, per superare la sua crisi, trattando il prodotto eterotopico con la stessa cura con cui si volge al corpo utopico.
La verità è che, al di là del suo supporto, ciò che più conta è il diffondersi vivo ed eterno dell’anima che c’è in quel corpo. Qualunque esso sia.